“Non romperti, papà”
Non starò qui a girarci troppo intorno: leggere il libro di Anna in questo periodo per me è stato distruttivo, quasi come trovarsi, inaspettatamente, nel raggio d’azione di una granata.
Il fatto è che negli ultimi mesi sto maturando la consapevolezza di non essere in grado di dire addio a chi amo, di non riuscire nemmeno a pensare di ritrovarmi inerme di fronte all’inevitabile conclusione della vita: per quanto non ci piaccia parlarne, la morte è una presenza che tutti, presto o tardi, dovremo conoscere.
Anche quando non vorremo, anche quando non ci sentiremo pronti, anche quando l’unico nostro desiderio, capace di tenerci svegli la notte, sarà agguantare un’altra manciata di vita, e poterla far durare almeno un altro po’.
Tra queste pagine, meno di trecento, io ho provato sulla mia pelle cosa significherà lasciar andare e, non voglio negarvelo, mi ha fatto un male cane.
Ho percepito i sentimenti contrastanti, la nostalgia che cala su tutte le cose come la prima nebbia d’autunno, la voglia di recuperare errori passati e la paura di non esserne in grado per la corsa incessante del tempo.
Come con ogni altro dolore provato, però, anche stavolta sono riuscita a sentire cosa si nasconde tra le crepe di un cuore devastato dalla perdita.
Se si legge questa storia dagli spazi bianchi tra una riga e l’altra si riesce a respirare la straordinaria bellezza di essere in vita, nonostante la fine sia più vicina ad ogni nuova alba.
Anna è stata in grado di regalarmi qualcosa che anche tutto il denaro del mondo non sarebbe in grado di comprare: l’importanza dei ricordi, l’obbligo di tenerseli cuciti nel taschino interno della giacca, la gratitudine di poter contare su di loro.
Grazie all'autrice e all'editore per la copia, ma soprattutto grazie perché, nonostante le guance rigate di lacrime per la paura (in questo momento palpabile come mai prima) di perdere qualcuno, siete stati in grado di regalarmi tanta, tantissima vita.
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