Ho letto “La linea del colore” di Igiaba Scego prima che venisse pubblicato ed è stato subito amore viscerale.
Nelle donne create dalla penna di Igiaba io ho visto la mia vita, i miei sogni, i diritti per cui mi batto ogni singolo giorno.
Mi sono affezionata così tanto a queste donne che quando Marta, dell’ufficio stampa di Bompiani, mi ha comunicato la possibilità di scrivere qualche domanda per l’autrice, ho colto la palla al balzo.
Non sarà un’intervista faccia a faccia quella che leggerete, ma per me è come se lo fosse. Quando scrivevo queste domande per Igiaba, tra le mura della mia stanza, era come se fossi di fronte a lei e le parlassi con il cuore in mano. E allo stesso modo, quando ho ricevuto le sue risposte, era come se le stessi ascoltando seduta di fronte a lei con una tazza di caffè fumante tra le mani.
Amici, è una cosa piccola, ma per me ha avuto un valore immenso.
Perciò sono emozionata nel dirvi che, scorrendo in basso, troverete la mia intervista all’autrice.
Spero che sappia farvi venire voglia di scoprire la storia di Lafanu e del suo coraggio. Vi assicuro che, per me, è stato un viaggio indimenticabile.
Buona lettura, V.
Grazie alla parte “Making of” alla fine del libro, scopriamo che Lafanu Brown è la somma di due donne realmente esistite. Due donne altrettanto indipendenti e forti. In Lafanu c’è anche qualcosa di suo? Una sua caratteristica che è riuscita ad inscrivere indelebilmente nel suo personaggio?
Flaubert diceva: “Madame Bovary C’est moi”, e aveva ragione. Ogni personaggio ha qualcosa dell’autore o dell’autrice. Io sono convinta al cento per cento, anzi al mille per mille, che Elisabeth Bennet abbia molto di Jane Austen e che Agatha Christie abbia dato molto di sé a Miss Marple. Quindi sì, Lafanu Brown C’est moi, anzi, visto che studio portoghese, Lafanu Brown sou eu. Ho fuso in lei Edmonia Lewis (scultrice) e Sarah Parker Remond (attivista), ma le ho tradite entrambe per creare un personaggio unico. Di me Lafanu ha la tenacia di perseguire i propri sogni. Io penso di essere cocciuta e di aver voluto sognare qualcosa che a detta di tutti era impossibile 20 anni fa, ovvero essere una scrittrice nera di narrativa italiana. Come ha ben detto Sandro Portelli alla prima presentazione del romanzo alla libreria Tuba, non sempre veniva accettato il diritto dei neri all’immaginazione. Negli Stati Uniti gli afroamericani ci hanno messo 200 anni per essere accettati come romanzieri, poeti e poetesse. Lo stesso è accaduto in Italia, in forme diverse, a noi migranti e figli di migranti: penso sempre ad un libro di Cristina Ali Farah, “Madre Piccola”, che avrebbe meritato di vincere uno Strega, per esempio, per la caratura poetica del testo che avvicinava la Ali Farah alla prosa ricca e asciutta di una Natalia Ginzburg o di una Joyce Lussu.
A Lafanu ho dato amore per l’arte e questa voglia di essere riconosciuta artista come gli altri, che è ciò che in fondo accomuna me e una generazione di figlie della migrazione a Lafanu. In un mondo che ci chiedeva solo l’autofiction, la storia vera, solo il vissuto spiccio; io, Cristina Ali Farah, Gabriella Kuruvilla, Laila Wadja, Gabriella Ghermandi e tante/i altre/i abbiamo messo al centro il nostro essere artiste.
Uno dei temi che emergono durante la lettura è il diritto al viaggio. Più nello specifico, viene a galla la negazione di questo diritto per tutti gli abitanti dell’Africa. È un tema troppo poco discusso che meriterebbe più visibilità. Ritiene che la negazione di questo diritto possa contribuire ad un mancato sviluppo sociale di questi territori? Mi spiego meglio: la negazione, per un giovane africano, all’ampliamento dei propri orizzonti fisici potrebbe portare ad una conseguente privazione dei sogni individuali e dell’ambizione personale? Questa sorta di “dittatura virtuale” che l’Europa sta attuando nei confronti dell’Africa, potrebbe portare ad una resa dei giovani? Tagliandogli le ali, limitandoli solo al loro territorio, questa negazione può spegnere il fuoco del progresso che c’è in ogni singolo giovane, europeo o africano che sia?
L’Africa non esiste. Esistono le Afriche. Sono tutte diverse e tutte con un potenziale incredibile. In Occidente, però, c’è una visione stereotipata del continente, e quindi quando un racconto ti inferiorizza successivamente diventa lecito fare tutto in quel territorio; ed è così che dietro l’angolo spunta lo sfruttamento delle risorse, dei territori e delle persone. Il mancato sviluppo di alcune parti del territorio è dovuto ad un neocolonialismo che non dà tregua. E per come la vedo io, il viaggio che sono costretti a fare i ragazzi e le ragazze per muoversi (sia all’interno del continente, sia fuori) non è altro che una forma di schiavitù. Vengono chieste delle cifre pazzesche a questi ragazzi e alle loro famiglie: vivono sotto il ricatto dei trafficanti. Secondo me solo una legalizzazione del viaggio porterebbe alla fine del monopolio che stiamo dando ai trafficanti dagli anni 90 del secolo scorso. È un discorso enorme, questo della mobilità, dei corpi privilegiati che possono andare ovunque in contrapposizione a corpi senza privilegi che si devono far violentare per passare le frontiere. A me fa male pensare come, sia il diritto alla mobilità, sia il diritto a restare nelle proprie terre (come fai a restare se una multinazionale ti ruba tutto?) sono così violati. Per questo motivo ho scritto un libro sul viaggio e sul desiderio del viaggi. Un libro sull’amore per un altrove, sulla voglia di cambiare, magari anche solo per tornare sui propri passi. Io La Linea del Colore lo vedo e lo penso come un libro sul sogno e sul desiderio, e sui nostri piedi (come i piedi dell’haitiano padre di Lafanu), che chissà dove ci porteranno.
[anche a me fa male, Igiaba, anche a me, corpo privilegiato.]
[un male cane]
All’intreccio di voci femminili che prende vita nel suo romanzo fa eco la parola “sorellanza”. Lafanu, Leila, Binti, i busti scultorei della fontana di Marino: tutte donne legate da una sorta di filo rosso che le porta ad immedesimarsi l’una nell’altra, sostenendosi a vicenda. Non ho potuto fare a meno di notare, in più di un’occasione, dei riferimenti a “Piccole Donne” della Alcott. In particolare, Lei ricalca molto il messaggio che lancia Amy riguardo alle belle arti: si riesce a diventare artisti solamente in Europa. Ecco, volevo sapere se, in qualche modo, “Piccole Donne” abbia influito sul rapporto che si va a creare tra le sue protagoniste: agli occhi del lettore, risultano come sorelle legate indissolubilmente l’una all’altra, pronte a tutto per difendersi e supportarsi reciprocamente.
“Piccole Donne” è il secondo libro che ho letto in vita mia. Il primo è stato “Orgoglio e Pregiudizio”, e devo dire che il rapporto di sorellanza l’ho imparato più dalla Austen che dalla May Alcott (che ho trovato un po’ troppo puritana nonostante Jo che mi piace sempre un sacco). Per me non c’è nessuna come Jane: una vera rivoluzionaria che mi ha insegnato a non dimenticare mai di parlare di classe e soldi. Nella Linea del colore si parla parecchio di soldi, del potere che danno e che tolgono. Poi devo dire che molto l’ho imparato da un libro di Toni Morrison, “Sula”, uno dei più bei libri sull’amicizia tra donne che abbia mai letto. Però penso che nel mio romanzo non ci sia solo sorellanza, ma anche molti dissidi tra donne. Penso, per esempio, al rapporto di Betsebea con Lafanu. Betsebea che si è data questa patente da buona, ma solo per brillare in società. All’inizio è pessima con Lafanu, è la classica white savior, la salvatrice bianca un po’ sopra le righe che vuole che si faccia come dice lei. Confesso che è il mio personaggio preferito. Una donna che solo la vedovanza ha reso libera e che però il patriarcato ha forgiato per essere comunque la bianca di potere. Si dovrà liberare dalla sua maschera di finta buona solo attraverso la depressione e la sorellanza. In questo credo che ho colto la lezione di Jane Austen: la società è sempre complessa.
Vorrei porre l’attenzione anche sui personaggi maschili, o meglio sulla contrapposizione tra la figura di Ulisse e quella di Frederick. Che ruolo hanno avuto nella crescita personale di Lafanu? In cosa sono differenti questi due uomini che per lei risultano così importanti?
Ulisse è la seconda possibilità. Il primo amore non si scorda mai, si dice, ma il secondo (il terzo, il quarto ecc) riesce a darci stabilità, come ci può dare stabilità anche l’assenza di amore. Nel libro ci sono entrambe le facce.
Ulisse è un uomo che sa ascoltare, è il grande orecchio di Lafanu. Con questa figura, plasmata su un vero anarchico dallo stesso nome, volevo far vedere che non tutti gli italiani sono stati colonialisti o a favore del colonialismo. Ci sono stati anche anticolonialisti attivi, certo sono stati pochi, ma ci sono stati e secondo me hanno salvato il Paese dal precipitare in una vergogna assoluta. Ulisse, insomma, è l’Italia migliore di ieri e di oggi.
Frederick, invece, è un uomo pieno di fascino e bellezza, intrigante come pochi, tanto che le mie amiche e amici mi dicono che sognano un Frederick anche per loro. Ma ecco, Frederick è teatro di un’evoluzione notevole nel corso del romanzo. All’inizio non sa superare la sua visione da maschio, non sa capire Lafanu, è intriso, nonostante la sua esperienza da schiavo e da chi si è dovuto liberare, di patriarcato. Non so bene se capirà tutti i suoi errori, ma c’è in lui la tensione verso il divenire un uomo migliore. Sono molto orgogliosa di essere riuscita a raccontare le contraddizioni e i progressi di Frederick in questo romanzo. Alla fine si rivela essere davvero un uomo da sposare.
C’è un passaggio che mi ha colpita molto. Leila, durante la Sagra di Marino a cui partecipa insieme all’amica, si trova di fronte alla Fontana dei Quattro Mori. Dopo aver incrociato gli occhi fissi dei quattro schiavi, Leila pensa: “E mi resi conto che quello che mi diceva la mamma, “arriva un momento nella vita in cui cambia tutto,” era vero, era arrivato il mio momento!” Arriva davvero un momento in cui tutto si capovolge e si capisce il proprio ruolo nella vita, come se di colpo ci venisse comunicata la parte che ci è stata assegnata alla recita scolastica. Volevo sapere quale è stato il suo momento, il fulmine a ciel sereno che ha cambiato il corso della sua vita.
Semplice: quando ho cominciato a scrivere professionalmente. Scrivere è stata la mia rivoluzione. Dopo niente è stato più uguale.
Nel 2020, come lei chiarisce spesso, la società si è chiusa su se stessa e la discriminazione sta riguadagnando terreno. I diritti umani sono costantemente messi in pericolo. Non solo il problema del colore di pelle o delle migrazioni, ma anche il problema di genere. Le sue protagoniste sono donne, e perciò spesso discriminate solamente per questo. Il suo libro, grazie alla tenacia e al coraggio di Lafanu e Leila, sotterra il seme della speranza nello stomaco del lettore. Che consiglio darebbe alle giovani donne, a quelle che vedono ancora i loro sogni stigmatizzati perché “sogni di una donna”?
Di non smettere mai di lottare, urlare, farsi sentire e combattere. Non solo per i propri diritti, ma anche per quelli violati di chi sta accanto a noi, di chi si trova in una posizione di minoranza. E di raccontarsi, sempre, con ogni mezzo necessario. Il mondo si deve colorare dei nostri desideri, di quelli per troppo tempo messi all’angolo.
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